martedì 18 novembre 2003
La “Spinal Unit” dell’Emergency Hospital a Suleimanya è un repartino di 10 letti molto accogliente, pulito e allegro, fiori di plastica, televisore per i pazienti, piccola palestra interna per la ginnastica. Sulle pareti nelle camere grandi fotografie di ex-pazienti nelle loro nuove case, o durante gite con lo staff di Emergency, che regolarmente gli fa visita E’ il massimo che si può dare per sollevare il morale dei malati: tutti giovani gravemente paralizzati, colpiti da proiettili e schegge che hanno spappolato il midollo spinale.
Jabar, 20 anni, muove un poco la braccia e niente altro, non può neanche essere messo seduto perché il tronco non lo regge. E’ arrivato dopo 3 mesi, dopo essere stato in un piccolo ospedale fuori Baghdad, un proiettile gli ha spaccato le vertebre al passaggio tra collo e torace, – dice il fratello – durante una sparatoria con gli americani. Jabar si è salvato, ma è arrivato con decubiti sacrali e sui fianchi spaventosi, pus, febbre, infezione urinaria. Lo abbiamo già portato 3 volte in sala operatoria per una toeletta accurata delle parti morte e infette ma la situazione è grave. Lui è depresso, è costantemente costretto a pancia in giù, triste e parla poco…non so se la considera una fortuna che il proiettile non sia stato mortale. E come lui tutti gli altri: chi è più fortunato viaggia in carrozzina.
Gli infermieri e i fisioterapisti sono molto ben preparati ed affiatati tra di loro: l’obiettivo è di rendere questi poveretti autonomi sulla carrozzina, senza piaghe da decubito, con un parziale controllo della vescica per urinare, ed infine dare loro un lavoro per sopravvivere nel loro villaggio. Emergency gli fornisce il piccolo capitale iniziale: la macchina da cucire per fare il sarto, gli strumenti per fare il calzolaio…Dopo 3 o 4 mesi di degenza sono pronti per affrontare di nuovo la vita…i più fortunati, perché Jabar non ce la farà.
Qualche giorno fa da Halàbja ci portano due ragazze ferite durante una sparatoria, una all’addome ed una sfigurata nel viso da un proiettile che le aveva attraversato la faccia: parlando con Nausad, capo sala operatoria, mi racconta del villaggio di Halàbja, il villaggio dove Saddam nel 1986 usò i gas come armi chimiche. Decidiamo di andarci venerdì pomeriggio, giorno festivo, ed in poco meno di due ore arriviamo ad un bel villaggio ai piedi delle colline che portano in Iran. Il 16 marzo 1988, verso mezzogiorno arrivano gli aerei di Saddam, cominciano a bombardare, la gente fugge, cerca rifugio fuori casa e subito dopo gli aerei ripassano a bassa quota riversando nuvole di polvere sconosciuta, fumi dall’odore di aglio o di mela ( una miscela di gas nervino, iprite, cianuro). In meno di tre ore muoiono 5000 persone, quasi l’intero villaggio.
C’è un museo in Halàbja con le foto fatte dagli iraniani arrivati in soccorso: intere famiglie morte per strada mentre correvano, un madre per terra con il figlio piccolo coperto e stretto al petto, altri gasati sul furgoncino mentre tentavano di andarsene…Non c’è quasi distruzione: le bombe sono state poche, soltanto per stanare le gente dalle case, perché i gas facessero più effetto. Quelli non morti subito, anche essi alcune migliaia, sono stati portati dagli iraniani in Iran per le cure di gravi ustioni. Sulle pareti del museo i 5000 nomi delle vittime scritti in arabo.
La guerra tra Iraq ed Iran durò dal 1980 al 1988, i kurdi di confine venivano accusati da Saddam di essere partigiani simpatizzanti degli ayatollah di Teheran. Nel Museo dopo le foto raccapriccianti dei civili gasati, ci sono foto storiche di Halàbja negli anni 50 e 60 che fanno vedere gente colta e laboriosa, feste paesane allegre, una società per niente arretrata: lo sterminio di Halàbja in realtà faceva parte di una pulizia etnica per arabizzare il Kurdistan iracheno.
Nausad aveva ragione. Per capire la maledizione della guerra non basta la sala operatoria, occorre anche la memoria storica dei fatti: quelle foto che mi restano oggi impresse dentro, camminare per le strade di quel villaggio immaginando le nuvole di gas dall’odore di mela, il racconto di chi aveva parenti tra le vittime…