Sabato 2 Marzo 2002
Carissimi,
sono arrivato a Kabul senza problemi ieri pomeriggio con il volo Nazioni Unite: dopo aver attraversato, dal Pakistan all’Afghanistan, alte montagne imbiancate di neve simili alle nostre Alpi, arrivo alla piana di Kabul, un altipiano di 1800m d’altitudine di un secco e di una desolazione unica.
L’aeroporto è fatiscente, relitti di aerei sfasciati e di hanger bombardati tutto intorno, i pochi miseri locali sono senza corrente elettrica, le valigie scaricate a mano, tre mujahiddin, che non parlano inglese, devono metterti il timbro d’ingresso.
La città è disastrata, mi viene un’angoscia passando tra le macerie e pensando a quello che deve aver subito questa gente, molta senz’altro inconsciamente.
Le donne in burka camminano come sempre tutte coperte, rigorosamente in azzurro. L’autista che mi porta alle case dell’ospedale, un mujahiddin del Panshir, ha un viso duro come scolpito nella roccia, un uomo anziano secco asciutto nel suo vestito tradizionale, con occhietti freddi che si aprono in un sorriso quando capiscono che vengo a lavorare in ospedale!
Lui non dice una parola di inglese, ed io non una parola di farsi (l’afgano-persiano) ma in qualche modo ci capiamo lo stesso.
Il tardo pomeriggio visito l’ospedale di Emergency, un gioiellino nel deserto della miseria che c’è fuori, più di cento letti strapieni di feriti, moltissimi bambini; e subito vengo coinvolto in sala operatoria per alcuni feriti da guerriglia. La sera conosco tutti i nuovi compagni di Emergency, il mitico Gino Strada, un altro chirurgo Alberto Nardini, la medical coordinator inglese Kate, gli infermieri Giuseppe, Matteo, Umberto, l’amministrativa Rossella, il logista Pietro, insomma un bel gruppo affiatato (anche se qualcuno andrà la settimana prossima nel Panshir, ad Anobah).
La giornata di oggi è stata invece tremenda: a metà mattinata arrivano 19 ragazzini distrutti dallo scoppio di una bomba (tipo cluster-bomb), o di un colpo di mortaio caduto in una scuola, non si capisce ancora bene.
Quello che invece ho capito molto bene è il danno enorme che un simile ordigno può provocare: ferite in testa con pezzi di cervello fuori, bambini che per entrambi le mani, buchi nei polmoni e nella pancia.
Provo sensazioni che soltanto dopo 12 ore di sala operatoria a riparare, ad amputare, a tentare di ricostruire membra disfatte e bambini mutilati, si possono capire: sensazioni di odio e di maledizione per chi progetta e costruisce questi ordigni, e sensazioni davvero di com-passione (nel senso di patire insieme) per quei ragazzini abbrustoliti dal sole di alta montagna, dallo sguardo atterrito e perso, sporchi e pieni di sangue…
Continuerò un’altra sera…
Vi abbraccio tutti quanti.
Silvio